
Giovanni Verga nacque a Catania nel 1840, da una ricca famiglia di possidenti terrieri. Giovanissimo, dopo aver intrapreso e non concluso gli studi di diritto, si dedicò alla letteratura e scrisse e pubblicò romanzi di argomento storico e patriottico. Nel 1865 sin trasferì a Firenze, allora capitale del Regno d’Italia, dove continuò a scrivere romanzi. In questi anni conobbe Luigi Capuano. Nel 1872 si trasferì a Milano, qui frequentò i salotti mondani e, soprattutto, venne a contatto con l’ambiente della Scapigliatura. A Milano, tra il 1870 e il 1880, maturò la sua conversione al verismo e conobbe la sua migliore stagione letteraria. Nel 1893 fece ritorno in Sicilia, a Catania, e ben presto vi si stabilì definitivamente. Lavorò saltuariamente alla stesura di un romanzo, ma, in pratica, non fece più nulla. Morì appartato, come un “galantuomo” ormai al di fuori della storia, nel 1922.
L’attività letteraria di Giovanni Verga è all’inizio caratterizzata da una produzione romanzesca di carattere tipicamente romantico, incentrata su temi e motivi sentimentali. Così, nei suoi primi romanzi, Verga racconta le gesta e le avventure di personaggi d’eccezione che si muovono in ambienti raffinati ed eleganti e sono vittime di passioni fatali e distruttive: artisti infelici, donne depravate e nobili corrotti, quali appunto i protagonisti di romanzi come Una peccatrice (1866), Storia di una capinera (1871), Eva (1873), e Tigre reale (1873). Ma nel 1874 la novella “rusticana” Nedda segna la conversione di Verga ai modi e ai temi del verismo apre una nuova e originale fase della sua attività di scrittore. Infatti con Nedda, storia di una giovane siciliana che lavora duramente per vivere e vede morire di stenti e di fatiche la vecchia madre, Verga, abbandonati i personaggi aristocratici e borghesi e le loro artificiose passioni, scopre il mondo degli umili, dei diseredati e degli oppressi prende a descrivere le misere vicende di questa povera umanità in modo oggettivo, lasciando cioè parlare le cose e i fatti stessi, senza interventi e commenti personali e adottando immagini, vocaboli, frasi e strutture sintattiche adeguati alla realtà di quei nuovi personaggi. Questo mondo “vero” di passioni elementari ma “vere” e di uomini strettamente legati alla dura realtà della vita quotidiana, è poi oggetto, negli anni successivi, di tutte le più importanti opere di Verga: dalle raccolte di novelle Vita dei campi (1880)e Novelle rusticane (1883) ai romanzi I Malavoglia (1881) e Mastro don Gesualdo (1889), due romanzi che avrebbero dovuto far parte di un più ampio ciclo, intitolato I vinti, che però non fu mai condotto a termine.

LA GENERSI DEL VERISMO VERGHIANO
La conversione di Verga dai modi romantici al Verismo fu senza dubbio il fenomeno letterario più notevole del nostro secondo Ottocento. Nessuno degli scrittori a lui contemporanei ebbe un così austero e severo concetto dell’arte. L’arte fu per lui un fatto della coscienza, prima ancora che del sentimento e della fantasia. Con la società in cui viveva, e che aveva preso a dipingere nei suoi primi romanzi, egli non era mai stato in relazioni pacifiche; ma a un certo punto si accorse che la sua polemica, per quanto sincera e generosa, non aveva presa nella vita reale, ebbe acuto e pungente il senso che quel mondo di lusso o di scapigliatura era un aspetto effimero e falsato dalla vita, e che la vita vera bisognava cercarla altrove.
Fu questo il disagio morale che lo condusse alla conversione, la quale non si sarebbe forse attuata e sarebbe rimasta nel suo stato vago e generico di crisi irresoluta, di oscura esigenza morale, se tre elementi non fossero concorsi a determinarla e cioè a risolverla nella sua forma concreta; un elemento filosofico; la teoria dell’evoluzione; un elemento politico sociale: le inchieste e i dibattiti sulla questione meridionale; un elemento letterario: la teoria e gli esempi del Naturalismo francese. Dall’evoluzionismo derivò il senso della vita come lotta per l’esistenza e perciò la visione degli attriti delle classi sociali. La questione meridionale lo guidò alla scoperta della sua terra, della Sicilia; non di una Sicilia mitica e leggendaria, ma di quella terra in cui viveva quella popolazione di derelitti dei quali egli aveva fin allora guardato, senza sentirle pungenti nel suo cuore, le chiuse sofferenze.

Il Naturalismo gli insegnò che l’arte deve ritrarre la verità della vita umana e che perciò essa deve rivolgersi di preferenza agli strati più umili della società, perché là si manifestano nella loro primordiale essenza le leggi fondamentali della vita. Gli insegnò anche che l’arte non deve essere pretesto di facile esibizionismo per l’autore, ma che deve risolversi in un obiettivo e “impersonale” rendiconto. Erano tre gli elementi cospiranti, e tutti insieme cooperavano alla sua nuova visione del mondo; giacché dall’evoluzionismo egli non trasse l’elemento ottimistico e cioè la glorificazione del progresso umano, ma solo il senso drammatico della lotta; mentre la sua pietas di scrittore non si volgeva all’idoleggiamento e alla celebrazione dei trionfatori, ma si piegava alle miserie dei vinti, che levano le braccia disperate e piegano il capo sotto il piede brutale dei vincitori, dei poveri diavoli che la corrente del progresso umano depone sulla riva dopo averli travolti e annegati.
Nacque così il “verismo”, e fin dalla sua prima, timida, ma sicura manifestazione, il bozzetto Nedda, si impostò saldamente, non quel che comunemente si dice il suo nuovo contenuto, ma la sua nuova visione, il suo nuovo giudizio sul mondo e sulla vita. Fu un ripudio aperto e radicale della vita elegante e salottiera, che ora gli appariva nella sua vuota e sterile inerzia; fu una condanna morale da cui quel mondo fittizio non potè mai più riversarsi nell’animo del Verga. In che cosa consistette la rivoluzione letteraria da lui promessa? Consistette, come altri hanno già detto, nell’insurrezione degli umili, nel diritto di cittadinanza accordato nell’arte dei poveri diavoli, ai cosiddetti “bruti”, di cui si svelavano ora le pene, l’aspro sapere umano. Ma c’è di più. Quei “bruti” non inveivano: si accontentavano solo di vivere. Godevano le loro gioie effimere e fugaci, pativano le loro durevoli sofferenze. Ma la loro presenza, da sola, era una denuncia; la loro vita, nuda, era un’accusa.